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Discorsi Divini di Bhagavan Sri Sathya Sai Baba

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discorsi:1963:19630812

19630812 - 12 agosto

Discorso Divino di Bhagavan Sri Sathya Sai Baba

Amore vero, Amore puro

[1] Kompella Subbaraya Shāstri ha parlato dell’avvento sulla terra dell’Incarnazione di Krishna ed ha letto degli estratti dal Bhāgavata Purāna che descrivono i fatti antecedenti alla Sua nascita. Voi lo avete ascoltato con gioia, sebbene molti abbiano sentito questi episodi per la centesima volta, ma la storia del Signore non perde la Sua dolcezza neppure quando è ripetuta. Jñāna, Yoga1 e Karma sono di per sé ardui da seguire ma, come la salsa ‘chutney’ che è fatta di sale, peperoncino e tamarindo macinati nelle esatte proporzioni, così anche la devozione che comprenda Jñāna, Yoga e Karma nelle giuste dosi, risulterà appetibile a tutti i palati. La grazia del Signore è un argomento caro a tutti ed alla portata di chiunque. Il Signore può essere invocato con qualsiasi Nome che risulti dolce alla lingua, o raffigurato in qualsiasi Forma che appaghi il vostro senso di meraviglia e stupore. Potete cantare il Suo Nome chiamandolo Ganapati, Gesù, Madre Divina, oppure potete chiamarlo Allah o il Senza Forma o il Signore di tutte le Forme. Non fa alcuna differenza: Egli è tutti i Nomi e tutte le Forme, è il principio, la metà e la fine; la base, la sostanza e la sorgente. Pertanto, tutte le storie che portino nella vostra coscienza la Sua gloria, grazia e bellezza vi piaceranno certamente.

[2] Credetemi, tutti gli impulsi, le funzioni e le modificazioni mentali sono impermanenti, come un cerchio che inizi a diffondersi dal punto in cui un sasso è caduto nelle placide acque di un lago. L’acqua si increspa ed i cerchi la turbano sino al punto più lontano. Ogni pensiero agisce come una pietra nella tranquillità della mente e causa un impulso che la agita tutt’attorno. Il sentiero esteriore dell’attaccamento moltiplica queste onde circolari e crea altre agitazioni, sempre più vaste. Il sentiero interiore del distacco tende invece a placare le acque in modo che non ci sia alcuna agitazione. Preservate la tranquillità, mantenete fermo il livello ed allontanate i pensieri che vi turbano. La concentrazione sul Nome e sulla Forma di Krishna tende a calmare le onde degli impulsi mentali. Quando E. M. Forster venne in India, si fermò per qualche tempo presso il Principe di Rajkot, nello stato del Gujarat. Un giorno Forster vide il Principe impegnato nella meditazione davanti all’immagine di Krishna e Rādhā, e si domandò perché lo facesse; il Principe non aveva desideri da soddisfare, perciò Forster gli chiese per quale motivo pregasse. Egli rispose che per lui Krishna era l’Incarnazione dell’Amore, della Bellezza e della Beatitudine, perciò quando meditava su quella Forma si riempiva di amore, bellezza e gioia. I sensi, l’intelletto e le emozioni si purificano e si affinano se si soffermano su ciò che è puro e splendido. Forster fu così indotto a compiere i primi passi di quella disciplina e, sebbene all’inizio la trovasse piuttosto difficile, l’emozione creata da quella strana calma lo spronò a persistere. Infatti si rese conto che la meditazione era una pratica buona ed utile.

[3] Krishna aveva solo poche settimane; un giorno un asceta entrò nella casa di Nanda e Yashodā, i Suoi genitori adottivi, mentre Yashodā lo teneva in grembo. Naturalmente non troverete questo episodio in nessun testo, perciò ve lo racconterò Io stesso. Le domestiche corsero in casa temendo che il Bambino potesse piangere nel vedere quell’uomo dall’aspetto rozzo. Yashodā notò che il Bambino lanciò uno strillo quando invitarono l’asceta ad andarsene, non quando si era avvicinato! L’eremita annunciò che era venuto a vedere Krishna Paramātma (Sé Supremo), nome questo che risultava nuovo per tutta la famiglia. Non c’è quindi da stupirsi che il Bambino si mettesse a piangere quando l’insigne visitatore fu invitato ad andarsene. A Devakī [madre naturale di Krishna] fu concessa la visione di Krishna come il Signore stesso, ma questo saggio aveva scoperto la venuta dell’Avatār tramite la grazia dell’Onnipotente. Era stato infatti il piccolo Krishna ad invitare il saggio al Suo darshan. Le risposte che Krishna dava quando le Gopī si lamentavano con Sua madre delle Sue birichinate e dei furti di latte e di burro, rivelano la Sua Essenza divina, grazie al significato interiore che trasmettono. “Perché hai bevuto il latte dal bricco che quella donna teneva in mano?” “Lo stava portando a Dio per offrirglielo; forse Dio stesso l’ha bevuto.” “Dov’eri andato di corsa?” “Sono rimasto sempre con te, non è vero?” “Perché tieni stretto quel vasetto di burro?” “In modo che gli altri non lo possano mangiare!” “Perché hai messo la mano in quel vasetto di burro?” “Cercavo un vitellino che si è perso.” Questo era il genere di risposte che dava per insegnare alla gente del villaggio. Egli era l’Antico in veste nuova, le Sue parole provenivano dal Principio del tempo.

[4] Anche il Principio di Rādhā è profondo ed insondabile. Rādhā era sempre assorta nella contemplazione del Signore e della Sua Gloria. Anch’essa vide il piccolo Krishna quale manifestazione divina, separato dalla forma umana. Un giorno Yashodā cercava Krishna perché si era allontanato. Lo cercò ovunque, ma non trovandolo alla fine andò a casa di Rādhā, la quale chiuse gli occhi e meditò su Krishna per qualche istante; poi chiamò ‘Krishna!’ – ed eccolo proprio lì. Allora Yashodā pianse di gioia e disse: “Io amo Krishna come una madre; c’è un sentimento d’egoismo in me che Egli sia mio figlio e che io debba preservarlo dal male e dargli guida e protezione. Il tuo Amore invece è puro, non è mosso dall’egoismo.” L’amore delle gopī era univoco, costante, trasparente e puro. Sfortunatamente, la loro relazione con Krishna descritta nel Bhāgavata è stata giudicata da persone che non avevano ancora disciplinato e dominato i propri impulsi; tale relazione risultava al di là della loro comprensione. Solo rigorosi asceti come il grande Saggio Shuka che espose la storia di Kri shna al re Parīkshit3 e, in tempi recenti, Rāmakrishna Paramahamsa4 possono apprezzare quel tipo di relazione e pronunciarsi sulla sua unicità. Tutti gli altri sono inclini a vedervi riflessi i loro stessi difetti e sentimenti, poiché il linguaggio della vita materiale è il solo che conoscano. Quelle esperienze si riferiscono allo stadio di turīya che non è alla portata di tutti; così costoro sviliscono la cosa abbassandola al loro livello e pretendono di essere a conoscenza di quel mistero.

[5] In realtà, ci vuole l’occhio interiore, occorrono i sensi interiori per comprendere il significato della relazione fra Krishna e le gopī. Oruganti ha dimostrato che l’argomento è al di là della comprensione di molti commentatori, in quanto è strettamente connesso all’esperienza non dualistica del Nirvikalpa samādhi6. La mente deve essere la padrona, non la schiava dei sensi, affinché l’interpretazione sia corretta. I pensieri, i desideri, le azioni ed i sentimenti devono essere purificati ed esenti dal desiderio di ottenere un tornaconto. L’egoismo stesso deve lasciare la sua possente presa sul commentatore, come è accaduto alle gopī. L’Amore verso il Signore, se è come quello delle gopī, rende l’uomo forte, non debole. Infatti esse non erano indebolite dal loro Amore, al contrario ne erano rinvigorite e temprate. Anche Rāmakrishna Paramahamsa esortava i suoi discepoli, come ad esempio Vivekānanda, a diventare forti ed a coltivare l’amore per Dio.

Ogni passo fatto verso il Signore vi fa abbandonare gradualmente tutti gli attaccamenti per il mondo, perciò com’è possibile che le gopī conservassero una coscienza corporea? Dhruva andò nella foresta per ottenere dal Signore la grazia di sedersi in braccio a suo padre, un desiderio puramente terreno; progredendo nella disciplina, quel desiderio scomparve e la sua mente si elevò ad altezze spirituali sublimi. Chi ha assaporato il nettare, come può desiderare l’acqua? Dopo aver gustato i datteri in suo possesso, chi può desiderare il frutto del tamarindo? Ogni bramosia o voglia verrà sublimata nei reami più alti della pura consapevolezza nell’istante in cui l’aspirante farà il suo ingresso in campo spirituale.

[6] Allora chi sono le gopī? Secondo quanto afferma il Bhāgavata, sono semi-dei che desideravano condividere la gloria dell’Avatār, scesi sulla terra per testimoniare e condividere il Divino gioco cosmico. Non erano donne ordinarie o voluttuose. In ogni gesto e passo di Krishna, in ogni Sua parola e frase esse vedevano il Divino, non l’umano. Non ci fu mai una sola occasione in cui le gopī fossero turbate da stimoli o pensieri materiali; al contrario, tutti i loro pensieri scaturivano da impulsi e slanci divini. Come la lente d’ingrandimento cattura i raggi del sole e li dirige tutti in un unico punto concentrandovi il calore fino a fargli prendere fuoco, così il cuore delle gopī raccoglieva tutti gli impulsi e li concentrava sino ad illuminarli e bruciarli. La fiamma bruciava tutte le scorie e la luce rivelava la Verità. Ogni altra interpretazione è frutto dell’ignoranza o del superbo orgoglio di un’erudizione puramente libresca che disprezza la pratica della disciplina.

[7] Krishna è accusato di essere un ladro che rubava il burro alle pastore, ma il burro rappresenta la devozione del cuore che si ottiene solo dopo il processo di ‘scuotimento’ [come si scuote il latte nella zangola]. Si tratta perciò della semplice raffigurazione di un simbolo che invece viene preso alla lettera. In realtà, Krishna è un ladro di cuori. I ladri rubano nell’oscurità della notte, senza svegliare il padrone di casa; ma quando Krishna ruba, il padrone si desta: Egli lo risveglia per dirgli che è arrivato. Così la ‘vittima’ si sente supremamente felice e soddisfatta. Le gopī custodivano nel loro cuore il più elevato tipo di devozione. Vedevano solo Krishna ovunque volgessero lo sguardo; sulla fronte si mette vano del Kumkum di colore blu per ricordarsi di Lui. Molti mariti protestavano a causa di quel colore blu, ma esse non osavano toglierlo per timore che accadesse loro qualcosa di male e che quel sacrilegio potesse ricadere su di loro.

[A questo punto del discorso, Baba si riempì la mano di petali di gelsomino strappati dalle ghirlande di fiori che gli erano state offerte. Lanciò i petali in gran quantità da una mano all’altra ed essi caddero in una cascata di gemme blu. Persino le gemme che quelle devote prediligevano erano blu come Krishna, e Baba mostrò al pubblico attonito le gemme a cui si riferiva; ogni gemma aveva chiaramente impressa in sé la stupenda forma di Krishna.]

[8] C’era una gopī di nome Suguna. Un giorno Krishna si trovava da Satyabhāmā e finse di avere un violento mal di stomaco; nonostante tutti i medicamenti che ella provò a somministrargli, Egli non mostrò di trovare sollievo. Naturalmente era tutta una simulazione, una magnifica commedia proprio come la paresi che Io ho avuto per una settimana, prima della festa di Guru Pūrnimā. Satyabhāmā non permise neppure a Rukminī di entrare in casa per informarsi sulla salute di Krishna; tuttavia Rukminī trovò Suguna gemente fuori della porta che si struggeva di dolore a causa della malattia del Signore, così diede a lei tutti i rimedi e le disse di andare dentro. Krishna l’accolse con piacere e la fece sedere ai Suoi piedi; mangiò i frutti che Suguna aveva raccolto nel giardino di Satyabhāmā e, all’improvviso, il Suo malanno scomparve. La pena di Suguna nel vedere le condizioni del Signore e la sua semplice e sincera devozione risultarono così efficacemente risananti. Nel vostro affetto ed attaccamento al Signore non deve esserci artificiosità, ostentazione, orgoglio o traccia di egoismo che possano contaminare la freschezza del fiore che offrite. Satyabhāmā aveva protestato quando Krishna aveva accettato i frutti di Suguna; infatti Egli aveva rifiutato i frutti che Satyabhāmā gli aveva offerto come prodotto prezioso del suo assiduo lavoro nel frutteto e nel giardino, perché erano insapori. Quei frutti erano privi di gusto in quanto vi era penetrato il suo orgoglio. Quando invece la semplice gopī li aveva raccolti da terra e colmati della sua devozione, essi erano diventati gustosi ed invitanti per il Signore, che dà importanza al sentimento interiore, non all’ostentazione. Solo l’Amore che non permette all’orgoglio ed all’invidia di contaminare la propria purezza è vero Amore per Dio. Molti sanno che da due mesi prendo solo un bicchiere di siero di latte al giorno; essi sono affranti dal dolore, sebbene abbia dichiarato che il Mio lavoro non si è fermato né ha subito ritardi a causa della cosiddetta ‘ridotta assunzione di cibo’. Questo è un segno del loro Amore, ma in realtà Io vivo della vostra beatitudine e non del cibo materiale. Vorrei che realizzaste questa verità e smetteste di preoccuparvi o di piangere.

Prashānti Nilayam, anniversario della nascita di Krishna, 12.08.1963

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da DISCORSI 1963 (Sathya Sai Speaks-Vol.III) ed.Mother Sai Publications
discorsi/1963/19630812.txt · Ultima modifica: 2016/02/23 15:18 da 127.0.0.1