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Discorsi Divini di Bhagavan Sri Sathya Sai Baba

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discorsi:1992:19920302

19920302 - 02 marzo

Discorso Divino di Bhagavan Sri Sathya Sai Baba

La forza del Nome di Dio

Che raccolto ci sarà nel campo, se, quando cade la pioggia, non si è fatta la semina?
E se non piove, ma si è fatta la semina, quale raccolto si avrà?
Per mietere, entrambe servono: pioggia e semina.
Così, la Grazia divina darà i suoi frutti solo quando c'è stato sforzo da parte dell'uomo.
Se i pensieri prodotti dalla mente sono buoni, si rifletteranno anche nelle azioni.
Se i pensieri sono malevoli lo saranno anche le conseguenze.

Universalità del Nome di Rama

Incarnazioni del Divino Amore,

Il mondo si basa su tre entità: il Fuoco, il Sole e la Luna. Nessuno può negarne l'esistenza.

Hetu krisânu bhânu himakara te.
Krisânu sta per il principio del Fuoco;
bhânu si riferisce al Sole e
himakara alla Luna.

La combinazione di questi tre elementi attira e sostiene tutti gli esseri del mondo. Essi sono causa di piacere, stupore ed anche d'illusione.

Poiché danno piacere, si chiamano Râma, nel cui nome esistono tre suoni: Ra, a,ma.

Ra si riferisce al Fuoco (Agni), a si riferisce al Sole e ma alla Luna.

L'insieme di queste tre entità sono simbolo del “Principio di Râma”. Tutte le cose del mondo sono riconoscibili da un nome e da una forma. Nient'altro le identifica. I nomi indicano gli oggetti e la forma deriva dal nome. Perciò, per ogni cosa che esiste nel mondo, il nome è primario e fondamentale.

Il Nome di Dio è potentissimo. E come Kamadhenu, la Vacca celestiale che soddisfa ogni desiderio; quando viene tenuta legata al palo, è soggiogata. Così il Signore Supremo, Colui che dimora in tutti i cuori: quando viene legato dalla fune della devozione e trattenuta al palo della lingua, rimane vincolato al devoto.

Ci sono solo due modi mediante i quali il Signore può esser legato o goduto, e cioè, il Nome e l'Amore. Il Nome può essere Râma o Hari o Hara o qualsiasi altro nome, poiché al Divino che permea tutto appartengono tutti i nomi. Il nome di Râma non è una prerogativa del figlio di Dasharatha. L'Âtma che conferisce beatitudine è noto come Râma. Fu il saggio Vasishta a dare il nome di Râma al figlio dell'Imperatore Dasharatha. Il nome di Râma è simbolo degli attributi universali di Dio, come l'onnipotenza, l'onniscienza e l'onnifelicità.

Il saggio Vâlmiki compose il Râmâyana in cento crore (= un miliardo) di stanze e pregò il Signore affinché le stanze fossero equamente divise fra gli abitanti dei tre mondi. A divisione ultimata, avanzava una stanza di 32 sillabe. Dopo la distribuzione di 30 sillabe, divise per tre, ne rimanevano ancora 2 indivisibili. Quelle due sillabe divennero i nomi di Dio come Râma, Hari, Hara e Sâyî: nomi che possono essere recitati da popoli d'ogni nazione e fede, senza preclusione di sorta. Chiunque abbia un cuore puro e amorevole può recitare uno di questi nomi: ciò non sarà mai loro imputato a colpa.

Il Nome è un antidoto

La potenza del Nome di Dio è tale che può perfino trasformare il veleno in nettare. Nella vita di Mira c'è un episodio che lo dimostra. Mira era una regina così assorta nella devozione a Krishna che danzava e cantava in estasi, ignara di tutto ciò che la circondava, sia che si trovasse a palazzo o fra la gente di un bazar. Suo cognato, che veniva elogiato per la condotta della regina in posti pubblici, non aveva idea di che cosa comportasse la vera devozione.

Mira non aveva assolutamente alcuna coscienza del proprio corpo. Un vero devoto dev'essere completamente libero dal senso dell'“Io” e del “mio”. Credendo che il comportamento di Mira fosse di disdoro per il prestigio e la reputazione della famiglia reale, il cognato decise di farla fuori offrendole una tazza di latte avvelenato.

Mira, per la sua dedizione anima e corpo a Krishna, era abituata ad offrire qualsiasi cibo al Signore prima di mangiarlo, e, allorché Gli offrì il latte per poi berlo, Krishna assunse tutto il veleno che c'era dentro la tazza, purificando tutto il latte.

In questo modo, dimostrò al mondo la potenza del Nome del Signore e la grandezza della devozione. Sono pochissimi al mondo coloro che cercano di scoprire com'è sorto il Nome, come dev'essere pronunciato e qual è la sua potenza. Il Bhâgavatam è il testo più autorevole che espone la gloria del Nome del Signore.

Significati allegorici del Nome

Yashodâ era all'oscuro delle origini di Balarâma e di Krishna: li tirò su come fossero suoi figli. Essi erano nati a Mathura, ma crebbero a Gokulam; furono concepiti nel grembo di Devaki (moglie di Vasudeva), ma vissero e giocarono a casa di Yashodâ.

Se cerchiamo di esplorare l'intimo significato di questi avvenimenti, comprendiamo la storia che essi rivelano.

Balarâma e Krishna erano nati a Mathura. Mathura significa “ombelico”. Devaki rappresenta l'Energia divina (shakti). Il Suono divino (nadam) simboleggiato dai nomi Balarâma e Krishna che hanno origine dal grembo dell'Energia divina, ha proseguito verso Gokulam, simboleggiato dalla bocca, per giocare sulla lingua, rappresentata da Yashodâ.

Râma significa “Colui che allieta”. Krishna significa “Attraente”. Il Nome di Dio dunque parte dall'ombelico e la sua santità va custodita sin quando viene pronunciato dalla lingua.

Perciò, il Nâmasmarana, il memoriale del Nome del Signore, implica la recita del nome dal più profondo di un essere e la custodia della sua sacralità.

Che significa la parola nâma? Secondo la numerologia, i numeri corrispondenti alle lettere na + â + ma, danno per risultato 7; infatti, na = O, a = 2, ma = 5: in totale, 7. Il numero 7 corrisponde alle sette note musicali (saptâsvara): sa, ri, ga, ma, pa, da, ni. I colori dello spettro solare sono 7. Ci sono 7 oceani nel mondo. I massimi Saggi sono 7 (Saptârishi).

È significativo che certe osservanze religiose vengono espletate nel corso di 7 giorni (Saptâham).

Il Nome rese Signore Ganapati

II nome Râma possiede un significato spirituale unico.

Ra sta ad indicare il Paramâtma, ossia lo Spirito Assoluto, Ma si riferisce all'anima individuale e a salda fra loro le due sillabe. Dunque, il Nome divino dimostra il principio unificante.

I Purana riferiscono una storia a proposito della potenza del Nome di Rama.

Una volta Œshvara ebbe l'intenzione di scegliere un capo per la schiera delle entità divine (gana). I Gana sono i Deva. Œshvara convocò tutte le deità e disse che chi fra loro avesse fatto il giro del mondo nel tempo più veloce sarebbe diventato capo dei Gana divini.

Le varie divinità salirono sui loro rispettivi veicoli e si disposero per il viaggio intorno al mondo. C'era fra loro anche Ganapati, il figlio maggiore di Œshvara. Lo chiamavano Lambodara, a causa del suo pancione. Il suo veicolo era un topo.

Dopo essersi seduto sul roditore, Lambodara entrò in competizione per il giro del mondo. Per strada, lo vide Nârada e gli chiese informazioni su ciò che stava compiendo. Lambodara fu infastidito che un bramino solitario gli si fosse presentato davanti nel suo viaggio per porgli l'infausta domanda di dove stesse andando. Temette che la domanda del bramino pregiudicasse il viaggio. Ma Nârada si avvicinò sorridente a Lambodara e gli disse che sapeva tutto della sua missione. Lo avvertì però che solo se avesse agito in conformità agli insegnamenti vedici, avrebbe avuto successo nella sua missione. E Nârada gli spiegò di quali comandamenti vedici parlava.

Tutti i Veda hanno magnificato la potenza del Nome del Signore. Gli disse Nârada:

“Se un enorme albero banyan è potenzialmente contenuto in un piccolo seme, anche tutto l'universo si trova in potenza dentro il Nome del Signore. Il Cosmo, quindi, non è diverso dal Nome. Se tu farai il giro intorno al Nome, avrai fatto un giro intorno al mondo. Se le deità faranno delle obiezioni a questa tua pretesa, ci sarò io a testimoniare a tuo favore”.

Lambodara disse: “Bene. Quand'è così, qual è quel Nome?”.

Rispose Nârada: “Ti affiderò quel Nome solo quando sarai pronto a mettere in pratica le mie parole”.

“Sì, - disse Lambodara - è sottinteso”.

“Scrivi le due lettere Ra e Ma e gira intorno ad esse. Poi torna da Œshvara - gli disse Nârada - Questo è il Nome che riempie di gioia l'Universo. Tutto il mondo è contenuto in questo Nome. Girare intorno ad esso equivale a girare intorno al mondo”.

Lambodara fece quanto gli aveva consigliato Nârada; poi tornò da Œshvara. Poiché aveva scoperto la verità circa la potenza del Nome di Rama, Lambodara divenne il capo dei Gana e prese così il nome di Ganapati, “Signore delle schiere celesti”.

Œshvara benedisse suo figlio con queste parole:

“Come capo dei Gana, sarai la prima deità ad essere adorata in tutte le circostanze augurali ed in tutte le cerimonie religiose prima d'ogni liturgia”.

Qui sta la ragione profonda del culto a Ganapati in tutte le funzioni religiose. Ganapati viene anche chiamato Siddhi Ganapati e Buddhi Ganapati. A Ganapati, infatti, si attribuisce un'acuta intelligenza: i poteri (siddhi) e l'intelletto (buddhi) sono la sua forza.

A motivo di questi poteri, Egli può garantire che ogni impresa venga portata a termine senza intralci, meritando così l'appellativo di Vighneshvara, “Colui che abbatte gli ostacoli”.

Considerate il modo con cui Ganapati ha ottenuto la sua signoria sui Gana: solamente per mezzo del Nome del Signore. Quanto sia potente questo Nome, potete verificarlo da voi.

Un solo Dio, un solo Signore di tutti i nomi e le forme

Nel nome di Râma sono presenti tre manifestazioni divine: il Fuoco (Agni), il Sole e la Luna. Qual è la loro origine?

Il Sole ha il potere di bruciare la Terra pur essendo lontano milioni di miglia. Chi sono i suoi genitori? Non saranno ancor più potenti? Esiste, dunque, il principio del Fuoco.

Il fuoco può distruggere ogni cosa. Chi sono i genitori del Fuoco?

La Luna è la fonte del refrigerio e della luce. Chi sono i suoi genitori?

Se si continua nell'indagine su chi ha generato questi tre elementi, si scoprirà che Dio è il genitore di tutto. Tutto è partito da Dio. L'uomo della strada non si dedica a quest'indagine che va alle origini primordiali di tutte le cose. Niente può esistere senza un fondamento, senza una causa.

Persino gli scienziati ora si sono impegnati nel cercar di scoprire questo fondamento. Di fatto, il Nome è la base su cui riposa il Cosmo intero. Il nome è il mezzo più semplice per identificare qualunque cosa o persona. Perciò, il miglior modo per riconoscere Dio e per avere un'idea della Sua Forma è quello di servirsi del Nome. Il Nome è sempre di buon auspicio.

Ogni essere umano sperimenta tre tipi di notti: la notte di luna piena, la notte oscura e la notte mezza buia e mezza illuminata dalla luna. Ma, oltre a queste tre notti, ve n'è una più sacra e singolare: la notte di Shivarâtri. Questa è la notte dedicata alla salmodia del santo Nome di Shiva. E ciò significa che si dovrebbe dedicare tutta la notte nella recita del fausto Nome di Shiva. Purtroppo, in quest'Era delle Tenebre (Kali - Yuga), la gente rimane sveglia nella notte di Shivarâtri per vedersi tre film o per giocare a carte o per andare a teatro. Non si può certo chiamare Shivarâtri questa!

In che cosa consiste la vera veglia di Shivarâtri? Consiste nel dedicare ogni istante della notte al pensiero di Dio e a recitare il Suo Nome. Questo solo è Shivarâtri. Shiva significa “di buon auspicio” e non Œshvara o Dio. Dio ha infiniti nomi. Non ci sono differenze fra Hari o Hara: la diversità di questi due nomi è stata creata dai seguaci di Vishnu e da quelli di Shiva, ma Dio non è soggetto a queste differenze settarie: Dio è unico ed uno solo. Possono esserci molti nomi e forme per descriverLo, ma la Divinità è una sola.

Vi sono molti fedeli che vanno a Tirupati. I seguaci di Vishnu o vaishnava ripetono il nome “Venkataramana, Venkataramana!”. Dalla ripetizione di questo nome essi ricavano soddisfazione. Dai vaishnava viene preferito Râmana. Essi portano sulla loro fronte tre linee verticali.

Gli Shivaiti vanno al tempio di Tirumala e ripetono il nome “Venkateshvara, Venkateshvara!” perché sono soddisfatti dalla ripetizione della parola Œshvara. Sulla loro fronte portano tre linee orizzontali (di vibhûti). Questi segni contraddistinguono e differenziano le due sette.

Ma il Signore del tempio è sempre lo stesso, che si chiami Venkataramana o Venkateshvara. E ancora, i vaishnava raffigurano Vishnu con le quattro insegne nelle mani: la conchiglia (shankha), il disco (chakra), la mazza (goda) e il loto (Padma).

  • La conchiglia è simbolo del suono e significa che tutto l'universo è nelle mani di Dio.
  • Il disco è simbolo della ruota del tempo e significa che Dio ha l'assoluto dominio sul tempo.
  • Il loto è simbolo del cuore e vuoi dire che Dio nelle Sue mani ha i cuori di tutti gli esseri.
  • La mazza è simbolo della prodezza e significa che Dio possiede ogni forza e potere.

Questo è il significato esoterico delle armi impugnate da Vishnu. Œshvara regge in una mano un timpano (damaruka), nell'altra una conchiglia. Il tamburo simboleggia il suono. In un'altra mano ancora, regge un tridente, simbolo delle tre dimensioni del tempo, il passato, il presente e il futuro. Perciò, Œshvara è anche il Signore del Suono e del Tempo.

Quando si studiano in questo modo gli attributi di Dio, si scopre che la Divinità espressa in qualsiasi nome o forma include tutte le definizioni e le potenze. Una delle gloriose qualità del Divino è quella di essere “eternamente fausto” (sadâshivamye). La gente dovrebbe santificare la vita servendosi di giornate sacre come Shivarâtri per seguire la tradizione indù: comprendere il significato del Nome, eliminare ogni differenza e ricordare le glorie del Signore.

Incarnazioni del Divino Spirito, sappiate che lo Spirito che dimora in ciascuno di voi è lo stesso Dio, che viene chiamato Hridayavâsi, ossia Ospite del Cuore.

Mente divina e mente umana

Considerate la differenza che passa fra mente e cuore. Il cuore è l'organo fisico che pompa sangue nel corpo, provvedendo alla purificazione del sangue e alla circolazione in ogni parte del corpo. La mente invece non riguarda il corpo, ma lo trascende: essa è in unione con la Coscienza Universale. Poi ci sono altri due uffici: l'intelletto (buddhi) e l'intelligenza (medhâ). L'intelligenza (medhâ) è la facoltà di controllo degli organi (indriya) e viene descritta come la “stanza dei bottoni”. L'intelletto o buddhi, però, non ha relazione col corpo. Le funzioni razionali sono connesse agli organi, hanno rapporto con gli strumenti di percezione e d'azione.

Buddhigrâhyam atindriyam,

si è detto:

“L'intelletto trascende gli organi”.

Quando qualcuno dice:

“II mio intelletto era distolto da qualcos'altro”, dimostra l'indipendenza dell'intelletto dal corpo. Quindi, sia la mente che l'intelletto dipendono dall'Atma, non già dal corpo. Gli uomini hanno l'abitudine di considerare la mente come una parte del corpo, ma questa appartenenza al corpo riguarda solo le attività sensoriali della mente: questa mente si regge su pensieri e dubbi. La mente invece che dipende dal Divino Spirito trascende il corpo.

Di conseguenza, la Divinità può essere sperimentata solo dopo che si sono portati ad estinzione i processi del pensiero. La coscienza che va al di lâ del pensiero è un riflesso dello Spirito. Lo Spirito, l'Intelletto e la Mente sono tre in uno e questa coscienza d'unità trascende il senso di “io” e di “mio”. Potete chiamarla Aham, che significa “coscienza”.

L'Aham è presente nell'Âtma in forma sottile e quand'esso assume una forma, diventa Ahamkâra, cioè l'ego. Occorre capire bene la differenza che passa fra aham e ahamkâra:

L'identificazione dell'aham con una forma corporea è ahamkâra, ossia il senso dell'io.

Aham va oltre la forma fisica dell'ahamkara.

Fusione nell'Universale

Quando vien meno l'identificazione del proprio Sé col corpo, si realizza lo stato di coscienza divina, l'Aham Brahmasmi, “Io sono Dio”. Dio e Spirito sono la stessa realtà. Dio riguarda la Coscienza Cosmica o Universale ed è presente in tutti gli esseri. La coscienza presente in un corpo si chiama Âtma, Spirito. È la Coscienza della persona. Si dovrebbe porre attenzione alla distinzione fra la coscienza e la Coscienza Universale: la coscienza è un riflesso della Coscienza Cosmica.

Quando la coscienza o L'Âtma lascia al termine della vita il corpo di un individuo, si immerge nella Coscienza Universale e diviene una con essa. È un processo simile a quello dell'aria di un pallone che viene liberata nell'atmosfera: ecco come i molti raggiungono l'unione immergendosi nell'Uno.

Sé individuale è il bhûtâtma, il Sé Universale è il Paramâtma. Il Sé di una persona è come l'aria imprigionata in un pallone: quando quel “io” disperde i suoi attaccamenti fisici e sviluppa un amore universale, varca le barriere del corpo e si immerge nell'immenso ed infinito Amore. Questa immersione viene chiamata Mukti, Moksha o Liberazione, ma il suo nome vero sarebbe sâyujyam, “stato d'unione totale con l'Universale”.

È paragonabile all'immersione di un fiume in un oceano da cui ha tratto origine. Una volta iniziata l'immersione in questo stato di coscienza, il processo è irreversibile: l'io personale è diventato l'Universale, come quando una goccia d'acqua caduta nell'oceano si confonde con esso. Finché un individuo rimane attaccato al corpo e separato dall'Universale, non può sfuggire al susseguirsi di nascita e morte. Ma non appena ha buttato via il senso di separazione e si fa uno con il Sé Totale, quell'anima non farà più ritorno nel ciclo di nascita e morte (Punarjanma no vidyâtî).

Questa consapevolezza del Divino (Brahmajñâna) non ha origini esteriori, bensì esiste nell'intimo di ognuno. Una volta superata l'illusione di essere separati che avviluppa l'individuo, la Consapevolezza si manifesta in tutto il suo splendore.

Tutte le altre conoscenze appartengono al mondo dell'esteriorità e non sono altro che “un riflesso dell'Interiorità”. È completamente sbagliato immaginare che si possa attingere la conoscenza della Realtà Interiore, esplorando la natura (Prakriti).

Il Sé Universale non si scopre attraverso la comprensione del mondo materiale. Voi provenite dal Paramâtma, ossia dal Sé Universale: questa è la verità da capire. Dentro di voi c'è la fonte primaria d'ogni conoscenza. Il saggio, lo jñâni, non è uno che vive sommerso dai libri, non si occupa di accumulare conoscenze relative al mondo fisico. Il vero saggio è uno che è consapevole del proprio Sé interiore e vive in accordo con questa verità. Molta gente che ama fare discorsi complicati sulle glorie di Dio, in effetti, non conduce una vita divina. A che serve la loro conoscenza scritturista? Che diritto hanno di dare consigli agli altri, se essi stessi non mettono in pratica ciò che predicano?

Fu questo l'insegnamento di Gesù, quand'era presente al fatto di quella donna che stava per essere lapidata da una folla che la considerava peccatrice. Egli disse alla folla:

“Chi di voi è senza peccato, scagli la prima pietra”.

Solennità come quelle di Shivarâtri devono servire a far sì che la gente coltivi qualità desiderabili e divine. Ascoltare un discorso divino su Shivarâtri e poi andarsene dimenticando completamente il contenuto del messaggio non è la maniera di rispettare questa festa. Allora, sarebbe piuttosto un savarâtri, “una notte di morte”.

Si può capire la differenza fra Shiva, “ciò che è fausto e auspicabile”, e sava, “cadavere”. Può essere chiarita se si mettono a confronto il processo della respirazione e la cessazione del respiro: al processo d'inspirazione ed espirazione è connesso un messaggio d'unione con Dio. So-Ham, si dice respirando, “Io sono Quello”. È la coscienza di questa unità che è ricca di buoni auspici. Ma quando questa coscienza manca, cioè quando manca il respiro, è il regno dell'infausto, della morte.

Occorre che non ci sia alcuna coscienza d'identificazione col corpo. Fu nel totale oblio del proprio corpo, ottenuto con la recita del Nome di Rama, che Ratnâkara assurse da una vita selvaggia a quella del saggio poeta Vâlmeki, autore del Râmâyana. Era così assorto nella salmodia del Nome del Signore che non si accorse nemmeno che le formiche nidificavano sopra di lui. Shivarâtri è un giorno dedicato alla contemplazione di Dio.

Non è cosa di un giorno l'anno: ogni notte può essere uno Shivarâtri.

Quand'anche non riusciste a rimanere in contemplazione per tutta la notte, basta che rivolgiate il vostro pensiero a Dio prima di coricarvi e di mattino quando vi alzate. Inoltre, in qualunque modo pensiate a Dio, il risultato sarà buono.

C'è un racconto che dimostra questa cosa. Una volta un padre condusse suo figlio al tempio e gli raccomandò di rimanere sveglio tutta la notte nel Sancta Sanctorum. Dopo qualche tempo, sia il sacerdote del tempio che il padre si appisolarono. Ma il giovinetto, rimasto vigile, notò un topo che si aggirava più volte rosicchiando le frutta e il cibo offerto alla Divinità. A quella vista, si rattristò, perché il topo stava consumando quanto era stato preparato per il Signore. Così, pensando in quel modo per tutta la notte, santificò la sua vita, mentre né il prete né il padre né alcun altro nel tempio ottenne i benefici della Grazia divina.

E importante che la devozione sia espressa in una forma. Vari devoti sono affezionati a diversi modi di adorare il Signore, ma qualunque sia il sistema di culto, la devozione dev'essere concentrata su un solo punto. Crescete nell'amore di Dio. L'amore verso Dio è devozione; l'amore verso il mondo è attaccamento. Dedicate tutta questa notte al canto del Nome di Dio: la vita può essere immensamente santificata per mezzo del canto devozionale.

(Prashanti Nilayam, 2 Marzo 1992, Festività di Shivarâtrì, Auditorium Pûrnachandra.

da Mother Sai n° 4/92

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